Festival Sconfinando, Sarzana (SP) - 14 luglio 2013 Francesca Rosati Freeman
"Le Figlie come le Madri - donne lungo la via della seta" è un documentario che come già ci annuncia il titolo ci fa arrivare fino in Asia Centrale, fino al Kirjistan, il Kazackstan e l'Usbekistan, in terre antiche, lungo la via della seta, in terre percorse anticamente non solo da Marco Polo e da carovanieri, avventurieri e commercianti, ma all'inizio del secolo scorso anche da viaggiatrici come Alexandra David Neels, che si è spinta fino in Tibet alla ricerca di spiritualità lasciandoci dei racconti di viaggio molto belli e avventurosi, e se pensiamo all'epoca in cui ha viaggiato, in condizioni spesso disagiate e a volte indossando perfino abiti maschili per farsi accettare in luoghi esclusi alle donne, questi racconti e questi viaggi acquistano ancora più valore. Anche Lisa è partita alla ricerca di qualcosa, è partita alla ricerca del legame che unisce tutte le donne alla terra e le donne fra di loro, un legame che fa sì che le figlie sono come le madri, ma è un legame che va oltre il legame biologico, è un legame ancestrale, un legame dalle radici comuni che ci dovrebbe accomunare invece di separarci: è il legame con la Madre Terra. Che le donne siano biologicamente connesse ai cicli della Terra è evidente basti pensare al mestruo, un ciclo in sincronia con quello della Luna. Questo stesso ciclo che ha segnato l'inizio del Tempo, tanto che i primi calendari erano basati sui cicli mestruali...La storia delle donne è quindi legata alla storia della Madre Terra, grazie all'antica identità della natura come madre nutrice, madre universale. Per questo, Lisa si è avventurata fino a tremila metri di altitudine attraverso varie peripezie, cammini impervi, villaggi difficilmente accessibili. Ed è in queste terre antiche che Lisa ha avuto la conferma di ciò che cercava, per lei è stato come un "ritorno a casa". "Le figlie come le madri" quindi non ci fa solo viaggiare, ma ci fa riflettere molto sulla relazione fra donne, soprattutto fra madre e figlia e le donne fra di loro. Il titolo del documentario "Le Figlie come le madri" potrebbe suscitare la reazione di quelle donne, e vi assicuro sono tante, che intrattengono con le proprie madri biologiche una relazione conflittuale o che non si identificano per niente al modello femminile da loro trasmesso. Spesso nelle mie varie presentazioni sui Moso, una società matrilineare di cui mi occupo già da ben nove anni, mi sono sentita ripetere "Ah, no, con mia madre, tutta la mia vita... mai!" Queste donne non hanno ancora consapevolezza del fatto che gli uomini per emergere hanno dovuto svalorizzare il femminile. Le donne che non hanno ancora fatto un lavoro interiore per ritrovare in se stesse questo antico legame, spesso hanno integrato i valori patriarcali trasmettendo alle figlie un'identità in cui queste ultime non si riconoscono. "Per contenderci l'approvazione dei padri abbiamo odiato le nostre madri ed è così che abbiamo perso il nostro legame con la Madre Terra" (Wicki Noble). La cultura patriarcale ha relegato il ruolo materno ad una funzione riproduttiva e ha fatto del modello della madre sacrificale lo spettro da cui, legittimamente, le figlie della rivoluzione femminista si sono allontanate per conquistare autonomia e costruire nuovi modelli di identità femminile. Tanto la mancanza di riconoscimento simbolico-culturale della relazione femminile, che l'idealizzazione del ruolo materno hanno, però, oscurato i valori della cura e del rispetto dei viventi e della terra nutrice, che, storicamente, le donne hanno contribuito a mantenere in vita. Purtroppo il maschilismo è riuscito a separare la cultura dalla natura ed è da questa separazione che è emerso l'ordine patriarcale, un ordine simbolico fondato sulla violenza nei confronti delle differenze tradotte in inferiorità e stabilendo il dominio dell'uomo sulla natura e sulla donna. L'uomo, afferma Vandana Schiva, fa violenza alla terra come fa violenza alla donna, non riconoscendo nell'una come nell'altra la sua propria origine, ma considerandole come sua proprietà. Essere uomini ha dunque assunto il significato di dissociarsi dal femminile e da quello che esso rappresenta, cioè da tutti i valori considerati essenziali come la cura, il nutrimento, la condivisione, l'ascolto, l'individuare i bisogni dell'altro, la cooperazione, per sostituirli con la competizione e l'aggressività, con la violenza e la distruzione. Nell'epoca definita "preistoria" questo legame doveva essere molto forte, molti erano i culti della Madre Terra, delle divinità femminili, della fertilità. Il ritrovamento di statuette femminili, che datano di 30 000 anni fa, ne sono la memoria, ma i fondamenti della nostra società attuale ci hanno allontanate da questo legame forte e profondo con la Madre Terra. La società patriarcale ci ha allontanate considerevolmente dal nostro sentire e dalla nostra intuizione che ci teneva in stretto contatto con l'universo e il culto alla madre terra è stato letteralmente sotterrato. Capire meglio questo legame naturale che unisce le donne alla terra, può dare uno stimolo per acquisire più consapevolezza del proprio ruolo. La ricerca di alcune donne, nella quale si inscrive quella di Lisa e la mia, come delle donne del suo film, va nella direzione di esplorare il legame tra elemento biologico e culturale, rintracciando nel legame con la madre e la Madre terra una forza profonda, per ri-leggere il valore dell'esperienza femminile. Un percorso di esplorazione intima dell'archetipo della madre universale che, a mio avviso, può permettere anche di superare il conflitto con la propria madre biologica, nel riconoscimento della comune appartenenza ad un genere creatore e creativo. Le donne del nostro tempo dovrebbero partire alla ricerca e alla conquista di questa identità perduta, al recupero e alla valorizzazione delle qualità archetipiche del femminile che possano di nuovo legarle alla loro essenza. I difensori dei diritti della madre terra sono già in azione per costruire un nuovo paradigma della società ispirato ai valori di un tempo antico, ma ancora esistenti nelle società dette matriarcali/matrilineari. Si tratta di un nuovo modo di immaginare la società, che vada oltre il modello di sviluppo androcentrico e androcratico dominante che sta per distruggere il pianeta. Nelle società matriarcali, che studio ormai da 9 anni, si riconosce nella Natura il principio femminile della creazione e nella donna che è figlia e madre, si riconosce la continuità della funzione creatrice e creativa. Qui il legame con la terra è molto sentito, le donne la ricevono ben curata dalle loro antenate, e a loro volta la curano e la amano come fosse un dono sacro e la trasmettono tale e quale alle generazioni future. Per nascita siamo le Guardiane della terra, perchè ci nutre, ci permette di vivere, di portare la vita e di amarla... noi siamo la Terra... Ciò che si fa alla Terra, si fa alle donne / e ciò che si fa alla donne, si fa alla Terra. |
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Lettera ai Media e a Napolitano sul femminicidio - 26 Marzo 2012 Iole Natoli e Francesca Rosati Freeman In data 26.03.2012 è stato inviato agli OdG nazionali e regionali un testo quasi identico a quello che ora segue. Poiché, nell'unirlo al testo della presente petizione indirizzata al Presidente della Repubblica, abbiamo provveduto ad apportarvi qualche integrazione, a nostro avviso proficua, ne replichiamo l'invio agli OdG, oltre ad estenderlo, come già previsto, alle maggiori testate giornalistiche e ad alcune emittenti televisive. Egregi Direttori, Egregi Giornalisti, il linguaggio usato troppo frequentemente dai quotidiani, dai periodici e dalle emittenti televisive per cui lavorate richiede delle modifiche radicali, affinché non vi rendiate per leggerezza complici di un costume sociale che, nel considerare le donne come oggetto di dominio maschile e non soggetti di diritti autonomi, ne fa le vittime predestinate di ogni frustrazione di ciascun Ego maschile reazionario. Ed è per questo, perché Voi possiate non sentirvi complici e noi non rimanere nel chiuso di un mattatoio alimentato continuamente da nuove vittime, che vi diciamo con quella chiarezza che ci deriva dal sapere di voler difendere un diritto inalienabile quale è la vita: NON VOGLIAMO più sentire la parola GELOSIA come MOVENTE, perché la gelosia non è un sentimento originario e spontaneo, ma derivato dall'idea di possesso che è illecita e delittuosa già in sé. NON VOGLIAMO più sentir parlare di DELITTO PASSIONALE: il FEMMINICIDIO va urlato fino a stordire anche i più sordi. La GELOSIA nella cultura patriarcale è giustificata dalla convinzione erronea e perversa che essa sia inscindibile dall'amore, ma nelle culture matriarcali la si disprezza e la si condanna perché fonte di conflitti e di violenza, irridendo chi si mostra geloso ed emarginandolo. E non ci stiamo riferendo qui alle culture matriarcali del passato, ma a quelle che esistono tuttora e di cui ne citiamo per brevità solo due, la cultura Minangkabau e la cultura Moso, rimandando per ogni approfondimento alle pubblicazioni di Heide Goettner Abendroth, di Peggy Reeves Sanday e di Francesca Rosati Freeman. Ri-definiamo dunque la parola GELOSIA, che ha molto poco a che fare con l'amore e che maschera pericolosamente il concetto deviante di "appartenenza" dell'altra/o, in una relazione di coppia che toglie al rapporto proprio ciò che rende nobile l'amore: la libera donazione di sé. Donazione che non è contrattabile: che può finire esattamente come ha avuto inizio. Abituiamo gli uomini, fin da bambini, a comprendere il valore della libertà nei rapporti e facciamolo usando in maniera più appropriata il linguaggio corrente. Fatelo anche voi, perché da questa responsabilità collettiva verso le potenziali vittime e i potenziali carnefici NON SIETE ESENTI. In quale modo? Ci permettiamo, sempre per quel diritto di autodifesa che in quanto donne-vittime sacrificali ci compete, di farvi un piccolo esempio. Scegliamo un recente articolo apparso su Repubblica.it, ma sia ben chiaro che avremmo potuto sceglierne altrettanto appropriatamente anche un altro di una qualsiasi differente testata. laRepubblicaNAPOLI.it, 24 marzo 2012, cronaca. Titolo e occhiello: "Salerno, 17enne accoltellata: è grave confessa l'ex fidanzato della ragazza. Il giovane di 19 anni l'ha colpita per gelosia mentre l'accompagnava a scuola. Era convinto che fosse innamorata di un altro. Per lui l'accusa di tentato omicidio. La vittima è in prognosi riservata". Testo "La furia della gelosia è durata un attimo, quanto è bastato per compiere un gesto dalle conseguenze irreversibili. Ha accoltellato la fidanzatina ma poi ha confessato. E' in carcere il 19enne di Salerno che ieri mattina ha sferrato una coltellata a una 17enne, credendola innamorata di un altro. Storie di ragazzi, risolte come a volte capita agli adulti. Lei è in ospedale, in prognosi riservata ma non rischia la vita". Già. Un tale accoltella la "fidanzatina" (com'è simpatico questo diminutivo, diminuisce anche l'entità della colpa, rende tutto un giochino da niente!), per "storie di ragazzi, risolte come a volte capita agli adulti" (sic). "Capita" per caso. "Capita", come incontrare per strada un amico e invitarlo a bere assieme un caffè. Insomma, una coltellata è una cosa che "capita" o può capitare a chicchessia. cosa ci sarà mai di strano in tutto questo? Certamente lei è in ospedale, questo è vero, però. via, "non rischia la vita". Sarebbe mai potuta una scenata finire forse meglio di così? Non siete d'accordo con noi sull'analisi? Trovate forse che stiamo esagerando? Non c'era modo di dare la notizia diversamente? Beh, eccovi, tanto per capirci meglio, un esempio, che se anche dovesse essere imperfetto sarà abbastanza dimostrativo ugualmente. "Un giovane di 19 anni, con il movente di un preteso possesso, ha accoltellato presumibilmente allo scopo di ucciderla la fidanzata, rea a suo avviso di voler "appartenere" non più a lui ma ad un altro. La vittima, una ragazza appena diciassettenne, è in prognosi riservata e anche se non versa in pericolo di vita rischia, com'è accaduto e purtroppo accade anche ad altre, di rimanere segnata forse per sempre dal trauma. Starà al giudice stabilire se l'aver utilizzato un coltello a serramanico che aveva portato con sé, determini per l'aggressore l'aggravante della premeditazione, nel tentato omicidio consumato". A noi sembra che la differenza ci sia e riteniamo che sappiate notarla anche Voi. Riteniamo cha atti del genere siano l'approdo estremo ma ormai quasi continuo di una mentalità maschilista, di antica derivazione patriarcale, che va esplicitamente contrastata: riserviamo il diritto di proprietà solo agli oggetti, non incoraggiamo, sia pure per leggerezza o distrazione, chi vuole esercitarlo sulle persone. Non è sufficiente, infatti, che in cuor suo il giornalista condanni le aggressioni e le uccisioni - non stiamo affermando che le condivida -, né basta che si rifaccia a formule giudiziarie che andrebbero modificate in altra sede. È necessario che il linguaggio che usa si sottragga agli stereotipi correnti, perché esso influisce, in una direzione o nell'altra, sulle opinioni e i comportamenti di cui scriviamo. Siamo certe che sarete in grado di considerare la responsabilità che Vi compete nel determinare la corretta percezione di un fenomeno che colpisce direttamente noi, o le nostre figlie, sorelle, nipoti e a volte madri. che potrebbero anche essere madri, sorelle, nipoti o figlie VOSTRE. Porgiamo dunque i nostri migliori saluti, aspettandoci che poniate in atto il cambiamento di mentalità e di linguaggio che con questa Vi viene richiesto. Ce lo attendiamo senza nessuna riserva, perché VOGLIAMO - e ne abbiamo il diritto - CHE IL FEMMINICIDIO CRESCENTE SIA FERMATO. Iole Natoli e Francesca Rosati Freeman *** Illustrissimo Signor Presidente Giorgio Napolitano, Il bollettino di guerra quotidiano ci comunica sistematicamente l'aggressione di una o più donne in una qualche regione d'Italia per mano di mariti, compagni, fidanzati abbandonati o che si credono tali, aspiranti partner sessuali respinti, i quali, considerando non persona ma proprietà del genere maschile la sfortunata di turno, ritengono di poterla oltraggiare, ferire, violentare, assassinare, con la stessa disinvoltura con cui si rompe o si getta via un oggetto usato, se la possibilità di quell'uso viene meno. Bollettini di guerra, dicevamo, stilati spesso con una leggerezza colpevole, in cui primeggiano espressioni linguistiche come "GELOSIA", "DELITTO PASSIONALE", "TRADIMENTO", "INNAMORATO RESPINTO" e altri termini che potremmo definire facezie, se non fossero formule devianti, che, pur conseguendo in parte a un linguaggio giudiziario di cui si rende urgente il cambiamento attraverso una legge specifica, contribuiscono al mascheramento dell'IDEA DI POSSESSO, come unica fonte reale di quegli atti. Quale che sia il diritto penale che lo ispira, il linguaggio giornalistico non è un manuale di diritto che consultano gli addetti ai lavori: è un mezzo di comunicazione di massa, che si rivolge all'immaginario collettivo e lo influenza contribuendo a formare l'opinione dei lettori, a dissiparne o consolidarne i pregiudizi più dannosi e frequenti. Non è possibile che si continui, salvo lodevoli casi abbastanza rari, a ignorare l'inestimabile peso del linguaggio e che si alimenti negli uomini l'idea che aggredire, violentare, assassinare una donna che non li ama più o che rifiuti di cominciare a farlo sia riprovevole, sì, ma "emotivamente comprensibile", sentiero ignobile da cui si giunge a ritenerlo anche lecito. Non è accettabile che chi detiene le leve del linguaggio mediatico si renda, per ignoranza, stupidità o indifferenza, assurdo complice del persistere di una mentalità delittuosa e la trasmetta alle generazioni maschili ancora in crescita. Noi Le chiediamo di aggiungere la Sua autorevole voce alla nostra. Glielo chiediamo perché sappiamo che sul linguaggio comunicativo ha reclamato pubblica attenzione in passato, sia pure in campi differenti da questo e perché sappiamo di non chiederle interventi che esulino dalle sue competenze istituzionali, che non prevedono istituzioni di leggi o atti di governo. Glielo chiediamo perché Lei rappresenta la popolazione italiana che soffre tutta della situazione attuale. Ne soffrono in prima linea le DONNE, vittime dirette o indirette dell'efferatezza delinquenziale maschile che viene esercitata su madri, figlie, sorelle e amiche, e insieme a loro ne soffrono quegli UOMINI che simili procedure non accettano, che temono anch'essi per il futuro delle donne della propria famiglia o della propria cerchia amicale, che si sentono offesi dal poter essere accomunati nell'immaginario collettivo a nemici del genere femminile. Glielo chiediamo, paradossalmente, anche nell'interesse di coloro che sono già sulla via di divenire aggressori, violentatori, assassini di donne, in cammino verso un FEMMINICIDIO ritenuto possibile, visto che nulla in concreto si fa per arginarlo. La stigmatizzazione necessaria con cui la notizia di un crimine va data non può contenere ambiguità. L'uso di un linguaggio appropriato può contribuire utilmente a scongiurare la banalizzazione del delitto, primo passo verso una sua supposta liceità; il delinquente potenziale deve trovare un muro di disapprovazione palpabile intorno a crimini determinati essenzialmente dalla pretesa di possesso e dal rancore, in modo che un ripensamento sia possibile PRIMA che egli abbia oltrepassato quel limite che, dall'irruente irragionevolezza di un "IO FAREI", lo consegna a un definitivo "IO HO GIÀ FATTO". Dal Presidente della Repubblica Italiana, alla quale apparteniamo per nascita, lingua e in parte per cultura - in parte in quanto questa esula dai ristretti confini nazionali -, ci aspettiamo un pubblico richiamo agli organi di stampa e di comunicazione mediatica, un'esortazione a quella correttezza di linguaggio che manca e che produce effetti d'incremento su quel fenomeno delinquenziale crescente, che prende il nome, scomodo per molti ma reale, di FEMMINICIDIO. La ringraziamo della lettura, dell'ascolto interiore e della voce che vorrà levare alta al riguardo e Le porgiamo, Signor Presidente Napolitano, i nostri fiduciosi saluti. Iole Natoli e Francesca Rosati Freeman *** Risposta del Presidente Giorgio Napolitano,
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25 novembre 2011 au Cinéma Voltaire Francesca Rosati Freeman L’origine de cette journée remonte à 1960, lorsque les sœurs Mirabal, militantes dominicaines, furent brutalement assassinées sur les ordres du dictateur Trujillo. Elle a fait une introduction à propos du sujet du film La Domination Masculine de P. Jean, dont le titre n’attire pas forcément la sympathie de ceux et celles qui croient que cela n’existe pas. L’intention est celle de rendre visible ce que généralement on a tendance à occulter : la violence contre les femmes. Dans ce film le réalisateur s’est principalement inspiré au massacre du 6 décembre 1989 à l’École Polytechnique de Montreal où 14 étudiantes furent tuées par Marc Lépine qui s’est suicidé tout de suite après avoir commis le crime. C’est sûrement un acte de folie, mais surtout un crime de genre. Dans le film l’auteur trace un lien direct qui va du choix des jouets, barbies pour les filles, petites voitures pour les garçons, etc., à la violence faite aux femmes dans le monde des adultes. À travers des images, des clichés et des stéréotypes l’auteur donne une visibilité à ce que d’habitude on ne voit pas et qui pourtant continue d’organiser nos relations homme-femme dans un rapport de domination qui dans certains cas mène à la violence la plus brutale. |
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Violences masculines envers les femmes : Posted on 25 novembre 2011 by Mademoiselle S. < Living with the Enemy, Donna Ferrato, introduction Ann Jones, Aperture.
< Photographie par Donna Ferrato.
< Photographie par Donna Ferrato.
Dans le livre, je discute le comportement des ces femmes et ces hommes qui - en tant que travailleurs sociaux, psychologues, magistrat-e-s… - sont du coté des hommes violents plutôt que des femmes ou des enfants victimes des violences. Dans ces cas, joue aussi le désir de se mettre du coté des plus forts, des dominants, même si ces personnes ne voudraient jamais l’admettre. Il faut dire que celle ou celui qui, dans sa profession ou dans ses fonctions, se met du cotés des victimes risque parfois l’isolement, la solitude, ou même les représailles du violent. Il faut se rappeler que les violents peuvent être très organisés, comme dans les cas des lobbies pro-pédophilie, des associations de pères séparés (dont beaucoup sont des hommes violents), ou des « hommes d’affaires » qui gèrent pornographie et prostitution.
< Photographie par Donna Ferrato.
Une autre perte, c’est la facilité de relations avec les hommes ; or des hommes, il y en a partout. Dans une vie de travail, ils sont les patrons et les collègues, et même si on ne travaille pas ou plus, dans nos pays, ils occupent tous les métiers du bâtiment (contrairement à ce qui se passe aux USA) avec le résultat qu’on a tout le temps affaire à eux dès qu’on a une panne d’électricité. Dans la vie hors-travail, ils sont là aussi ; ils sont moins là pour les femmes qui n’ont pas de relations intimes avec eux, mais ils ne sont pas absents pour autant, et il faut bien faire avec.
< Photographie par Donna Ferrato.
LEM: Dans un texte intitulé « Violences contre les femmes », publié en 1997 dans NQF et repris dans « Un universalisme si particulier. Féminisme et exception française », tu écris, Christine, que si le « chemin de la connaissance féministe est si long », c'est qu'il « passe par l'acquisition d'une notion de notre propre dignité »7. Tu précises que ce « travail [est] aussi ardu qu'il est paradoxal, puisqu'il s'agit d'aller à contre-courant de notre propre culture ». Reconnaître les violences faites aux femmes, en tant que femme, commencerait donc d'abord par un effort sur nous même pour reconnaître notre propre dignité?
< Photographie par Donna Ferrato. Ainsi, reconnaître et garder le sentiment de notre propre dignité est un combat incessant; le mener seule, c’est le mener sans perspective de succès, et dans une solitude morale qui devient de plus en plus pesante, et conduit à l’abandon. Encore une fois, le pire tour qui nous a été joué, c’est de nous faire croire que nous avions « tout gagné » et pouvions « passer à autre chose », à une « vie normale » - sans copines et sans réunions : une vie où nous sommes à nouveau seules, face à des hommes qui eux ne sont jamais seuls, et qui ont un sens aigu de la solidarité.
pubblicato il 25-11-2011 sul sito |
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Journée Internationale de la Femme - 100 -ème anniversaire - 8 mars 2011 di Francesca Rosati Freeman Je me demande si aujourd'hui le 8 mars 2011 peut vraiment être considéré une fête pour les femmes en sachant qu'après un siècle de luttes la plupart des problèmes liés aux femmes restent non résolus : il y a avant tout la violence contre les femmes qui ne connaît pas de limites, ni géographiques, ni culturelles, ni de classe sociale, les statistiques sont claires à ce sujet : en Europe tous les trois jours une femme meurt des coups et blessures de son mari ou de son compagnon ou de son ex. et j'ajouterai même de son père ou de son frère ou de son oncle. Les abus sexuels et les viols sont à l'ordre du jour. Les inégalités et les discriminations dans le domaine du travail, la peu nombreuse représentation des femmes au niveau politique, des congés maternité mal payés ou pas payés du tout et encore la manière indécente dont le corps de la femme est exploité, dans la publicité, dans les revues dites féminines et même dans les journaux soi disant de gauche où ils nous montrent un modèle de femme au silicone et refait au photoshop qui n'existe pas dans la réalité : tout cela nous place dans un état d'infériorité et d'exploitation par rapport à l'autre sexe qui nous blesse et nous humilie profondément.
En Italie tous ces hommes qui nous gouvernent et qui associent pouvoir et sexisme ne peuvent plus nous représenter, les femmes italiennes ont répondu massivement le 13 février dans 230 communes et dans beaucoup de villes à l'étranger à l'appel de « se non ora quando? » elles ont crié stop à la dictature du machisme, stop à la dégradation des femmes objets, stop à la précarité du travail et à la violence. Mais aujourd'hui je ne revendique même pas, aujourd'hui le temps est venu pour les femmes de prendre la relève, d'indiquer, elles, la voie à suivre et pas à la demander. Si on laisse tout le pouvoir à ceux qui nous gouvernent, dont la grande majorité est composée d'hommes, on nous laissera toujours dans un état d'infériorité et d'exploitation, mais cela ne suffit pas. Il ne suffit pas que les femmes partagent le pouvoir et qu'elles soient représentées de façon égale dans le parlement et dans tous les postes clé des organismes administratifs. Le véritable ennemi des femmes est le système patriarcal soutenu par une économie globale. Commençons par éduquer nos garçons depuis la naissance à respecter les femmes, dénonçons tout acte de violence, ayons le courage de rejeter les valeurs patriarcales véhiculées par notre société actuelle, et non pas pour dominer les hommes, mais pour coopérer au même niveau pour que tout le monde trouve sa place dans une société sans violence, sans discrimination, sans domination d'un sexe sur l'autre ni exploitation de toute sorte. C'est pour toutes ces raisons que je pense que cette journée devrait être une occasion de réflexion.plutôt que de fête et de célébration. |
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Se non ora quando? - 13 febbraio 2011 di Francesca Rosati Freeman Se non ora, quando ? È l'appello a cui, domenica 13 febbraio 2011, ha risposto più di un milione di donne e alcuni uomini che ritengono che anche la dignità maschile va ridiscussa. Hanno manifestato in 230 comuni italiani e in molte città all'estero: Parigi, Londra, Bruxelles, Madrid, New York, Boston, Tokio, Seoul, etc..., ma anche Zurigo e Ginevra. Le donne hanno gridato basta alla dittatura del machismo, basta alla mercificazione dei corpi femminili che media e potenti vogliono siliconati, basta alla precarietà del lavoro e alla violenza, basta alla degradazione delle donne usate come oggetto, basta alla veicolazione dei valori patriarcali, ma basta anche alla degradazione socio-politico-culturale del paese. Tutte e tutti hanno chiesto le dimissioni del primo ministro. Dunque una manifestazione all'insegna dell'indignazione delle donne e dell'antiberlusconismo. A Ginevra più di 150 persone, italiane/i per la maggior parte, si sono radunate nella piazza delle Nazioni Unite cantando "Sebben che siamo donne..." , mostrando cartelli con gli slogan più svariati, da "Berlusconi, Dimissioni!" a "Pouvoir aux femmes" "Meno festini, più Levi-Montalcini" Stop Pornocracy" "ORA BASTA!" "Governo mafioso fascista immorale, basta! "etc... e dopo un minuto di silenzio alla domanda "Se non ora, quando"? in coro tutti hanno risposto "Adesso". Se la situazione politica italiana ha una sua specificità, il patriarcato purtroppo non è solo italiano e a questo appello, all'estero, avrebbero potuto rispondere anche donne indignate non italiane. Prima della manifestazione un dibattito molto acceso stava dividendo le donne: scendere in piazza per fare le moraliste e giudicare quelle che vendono il proprio corpo per far carriera o per difendere la propria dignità e avere la libertà di scegliere, essere noi stesse come lo desideriamo? Il mondo delle donne si stava dividendo in sante e puttane, ma è prevalso il buon senso e ognuna di noi è scesa in piazza con la propria soggettività. "Ognuna è andata con tutti i motivi di indignazione che più o meno consapevolmente ha accumulato - dice Lea Melandri - : dalla precarietà esistenziale e lavorativa al peso delle responsabilità famigliari, dalle discriminazioni nella sfera pubblica alla violenza di cui sono ancora vittime nel privato, dall'esaltazione dei loro corpi alla mortificazione della loro intelligenza". In Italia le donne sono puttane se vendono il loro corpo per strada e offendono il decoro urbano, diventano invece escort se si recano in villa accompagnate dagli autisti in limousine blu, per poi diventare donne in carriera con incarichi ministeriali o nello spettacolo. Il degrado sociale poi arriva al suo culmine quando sono i genitori stessi ad affidare le proprie figlie ai potenti e non per bisogno, ma per sistemarsi più facilmente e agevolmente nella società. Questi uomini che ci governano, che associano potere e sessismo e queste donne arrivate al potere mettendosi in vendita, non possono più rappresentarci! "Ci troviamo in un disastro, ci dice Alessandra Bocchetti - una delle più grandi figure del femminismo italiano, nel suo discorso alla manifestazione del 13 febbraio a Roma - ma di questo disastro non siamo del tutto innocenti neanche noi. [.. ]. Siamo state finora troppo timide, troppo fiduciose, troppo conniventi, troppo deleganti, troppo ubbidienti!" "Adesso bisogna che siano le donne a dare la via da seguire e non a chiederla, quelle donne che non escono fuori dai concorsi di bellezza, nè dai letti dei potenti". Ma le femministe, storiche e non, dicono basta già da mezzo secolo. Lo slogan "Né puttane, né madonne, siamo solo donne", che ho rispolverato per la manifestazione di domenica scorsa, data di almeno 40 anni ed è pertanto attualissimo. Forse adesso il rapporto fra politica e sessismo è diventato più chiaro, i danni del patriarcato sono ancora più evidenti, più coscienze si sono risvegliate...e spero proprio che una giornata così imponente come quella di domenica non si risolva in una bolla di sapone. |